La Federazione Italiana Nuoto ricorda oggi, 288 gennaio 2016, la tragedia di Brema dove morì Bruno Bianchi e i suoi compagni di squadra, l’allenatore Costoli e il giornalista Rai Sapio. Alle ore 11.00 in piscina Bianchi, sotto il suo busto, verrà deposta una corona d’alloro alla presenza del Sindaco di Trieste, Roberto Cosolini, rappresentanti del CONI e della FIN e la presidente degli Azzurri del FVG, Marcella Skabar. Alle 18.51, ora della tragedia, verrà rispettato in piscina un minuto di silenzio in ricordo dei caduti di Brema.
“La notizia era arrivata in modo nebbioso, incerto, frammentario. All’inizio nessuno voleva crederci e quindi la consapevolezza della strage che aveva colpito il nuoto italiano ha fatto fatica a consolidarsi in un grumo di dolore che non si sarebbe sciolto mai più. Era una brutta giornata, scura e nebbiosa, alle 18.51 del 28 gennaio 1966, esattamente 50 anni fa, quando un aereo della Lufthansa si era incendiato a Brema in un atterraggio mal riuscito e si era portato via la meglio gioventù che il nuoto italiano avesse mai avuto. Bruno Bianchi, triestino, serio e taciturno, da pochi anni se ne era andato a nuotare a Torino, un cervello in fuga -si direbbe oggi- studente di fisica e capitano della nazionale italiana. Per chi nuotava in quegli anni a Trieste era un mito, raccontato tante volte dal suo ex allenatore, Carlo Carboni, un veterano della campagna di Russia e un grande “artigiano” del nuoto, che lo aveva lasciato andare per permettergli un futuro migliore di nuoto, studio e lavoro. Bianchi non l’ho quasi conosciuto, ma mi ricordo che -durante qualche gara di nuoto- mi aveva intravisto e sorriso, perché aveva riconosciuto un triestino.
Con lui, su quell’aereo maledetto, c’era il suo amico fraterno, il torinese Dino Rora, altrettanto silenzioso, primatista europeo nei 100 dorso; Amedeo Chimisso, veneziano che aveva imparato a nuotare nella Giudecca, dalla gioia e dalla forza esplosiva, anche lui mistista e dorsista di livello internazionale, che nuotava e parlava volentieri con me in dialetto; la ranista bolognese Carmen Longo; la delfinista genovese Daniela Samuele, la più giovane del gruppo, che nuotava all’Olona di Milano. E poi tra i romani, la dorsista Luciana Massenzi e il “purosangue” Sergio De Gregorio, stileliberista di talento allenato da Paolo Costoli, anche lui perito a Brema. Nico Sapio, il telecronista della Rai, era stato tra i primi a raccontare in televisione le imprese dei nuotatori italiani, che a quei tempi erano tanto ricchi di talento quanto poveri di notorietà.
“Non erano né ricchi né famosi” scriverà subito dopo la tragedia Dino Buzzati, che non ebbe certo paura di segnalare la distratta partecipazione di una Italia concentrata sul festival di Sanremo. “A guardare le loro foto –continua Buzzati, dicendo una verità che rimane intatta ancora oggi- fanno tenerezza e pietà. E poi l’Italia era a seguire Sanremo, una gara di nuoto in un paese che non sa stare a galla, non era così interessante”. L’Italia, poi, lentamente, si è riempita di piscine ed ha imparato a nuotare e poi, finalmente, anche a vincere nelle difficili discipline del nuoto.
Ma io ricordo ancora il dolore dell’intera città quando il feretro di Bruno Bianchi, tra due ali di folla, fu portato dalla piscina coperta, che poi avrebbe preso il suo nome, sulle Rive fino alla chiesa di Sant’Antonio Nuovo. Per me fu il dolore di un’assenza e di un vuoto quasi impossibile da colmare. L’anno dopo, invece, fui convocato in nazionale proprio in occasione del Meeting di Brema. Il commissario tecnico della nazionale italiana, Umberto Usmiani -originario di Arbe (oggi Croazia), che nel corso degli anni mi avrebbe raccontato, rigorosamente in “triestino”, le sue avventure di guerra, e si rammaricava ancora di essersi lasciato sfuggire la cattura di Tito- fu allungo indeciso se e come andare a Brema. Bisognava andarci per ricordare i nostri caduti, ma andammo in treno, proprio su quel treno che un anno prima fu scartato per scegliere l’aereo in una difficile combinazione di ritardi, che alla fine fu fatale.
Ci siamo andati soprattutto per portare un mazzo di fiori sul piccolo cippo che ricordava la tragedia e riportava i nomi di quel tecnico, di quel giornalista e di quegli atleti che per me erano troppo “grandi” per sentirli davvero amici, salvo il dirompente Amedeo Chimisso, con il quale avevo nuotato e scherzato.
Il pensiero “corsaro” di Pier Paolo Pasolini disse subito: “Quei visi dimostrano un completo abbandono alla vita. Come forza, come gioventù. Io mi chiedo quale disegno ci sia in questa orrenda disgrazia successa a Brema. Che cosa hanno voluto dire questi giovani a noi che sopravviviamo a loro”. Per tentare di rispondere all’implicita domanda di Pasolini con cinquanta anni di ritardo, si può dire che non poteva esserci alcun “disegno” nella loro morte, ma ci hanno lasciato la loro voglia di vivere. La loro eredità è l’esempio che voleva coniugare l’impegno nello sport con quello nello studio e nella vita.
Per tutta la vita mi sono portato dentro un vago senso di colpa per aver preso il posto di atleti che consideravo irraggiungibili. Ma la vita –come sempre- è andata avanti. Per me sono arrivati i record italiani e le due finali alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968, ma ho sempre sentito quei “compagni di squadra” come stimolo e modello. Un modello che il tempo non può cancellare dalla memoria. Da oggi, forse, anche i giovani e meno giovani, hanno l’occasione di conoscere e ricordare il loro esempio prezioso.”
franco del campo